Corte Costituzionale: IMU e immobili occupati abusivamente

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 60/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, vigente ratione temporis, riguardante i soggetti passivi dell’IMU. In particolare, il giudice delle leggi censura tale norma nella parte in cui non prevede che l’IMU non sia dovuta per gli immobili occupati abusivamente relativamente ai quali sia stata presentata una tempestiva denuncia in sede penale. Secondo la Consulta, è irragionevole affermare che sussista la capacità contributiva del proprietario che abbia subito l’occupazione abusiva di un immobile che lo renda inutilizzabile e indisponibile e si sia prontamente attivato per denunciarne penalmente l’accaduto.

La controversia nasce a seguito di due ricorsi di una casa di cura srl avverso il silenzio rifiuto opposto da Roma Capitale sull’istanza di rimborso del versamento IMU, rispettivamente per le annualità 2013 e 2014, relativo a un immobile di proprietà della suddetta società, occupato abusivamente da terzi a partire dal dicembre 2012. Tale società aveva dimostrato che erano state attivate tutte le necessarie iniziative per prevenire l’occupazione dell’immobile («dalla predisposizione della chiusura a mezzo blocchetti di cemento delle aperture […] alla attivazione di un servizio di sorveglianza privata ancorché non armata sin dal mese di marzo 2012») e che aveva altresì provveduto a denunciare immediatamente all’autorità preposta l’avvenuta sua occupazione abusiva e tuttavia, benché fosse stato disposto un sequestro preventivo dell’immobile da parte del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Roma nell’agosto 2013, lo stesso non aveva avuto esecuzione per motivi di ordine pubblico.

La Corte, dopo una breve premessa normativa e giurisprudenziale relativa ai presupposti impositivi dell’IMU, evidenzia come, indipendentemente dalla nozione di possesso cui debba farsi riferimento a proposito dell’IMU, sia irragionevole affermare che sussista la capacità contributiva del proprietario che abbia subito l’occupazione abusiva di un immobile che lo renda inutilizzabile e indisponibile e si sia prontamente attivato per denunciarne penalmente l’accaduto, tanto che il legislatore è intervenuto con la legge n. 197 del 2022 per dichiarare non dovuta l’imposta in questione. Emblematico è il caso oggetto dei giudizi in cui la società proprietaria aveva assunto tutte le necessarie iniziative per prevenire l’occupazione dell’immobile e aveva tempestivamente provveduto a denunciare all’autorità giudiziaria penale l’avvenuta occupazione contro la sua volontà. Benché nell’agosto 2013 fosse stato disposto un sequestro preventivo dell’immobile ex art. 321 del codice di procedura penale da parte del giudice per le indagini preliminari, lo stesso sequestro non aveva avuto esecuzione per ragioni di ordine pubblico. Pertanto, la società proprietaria non era riuscita a tornare nel possesso dell’immobile nonostante l’uso di una diligenza adeguata.

È dunque irragionevole e contrario al principio della capacità contributiva che il proprietario di un immobile occupato abusivamente, il quale abbia sporto tempestiva denuncia all’autorità giudiziaria penale sia, ciò nonostante, tenuto a versare l’IMU per il periodo decorrente dal momento della denuncia a quello in cui l’immobile venga liberato, perché la proprietà di tale immobile non costituisce, per il periodo in cui è abusivamente occupato, un valido indice rivelatore di ricchezza per il proprietario spogliato del possesso.

 

La redazione PERK SOLUTION

Corte costituzionale: l’imu non va pagata se si è denunciata penalmente l’occupazione abusiva dell’immobile

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 60/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale) nella parte in cui non prevede che non sia dovuta l’IMU per gli immobili occupati abusivamente relativamente ai quali sia stata presentata una tempestiva denuncia in sede penale.

La questione è stata sollevata dalla sezione tributaria Corte di cassazione per violazione degli artt. 3, primo comma, 53, primo comma, 42, secondo comma, Cost. e 1 Prot. addiz. CEDU, per contrasto con i principi di capacità contributiva, uguaglianza tributaria, ragionevolezza e di tutela della proprietà privata in quanto per gli immobili abusivamente occupati e di cui sia precluso lo sgombero per cause indipendenti dalla volontà del contribuente verrebbe a mancare il presupposto dell’imposta, ossia l’effettivo e concreto esercizio dei poteri di disposizione e godimento del bene.

Secondo la Corte costituzionale, è innegabile che nelle ipotesi in cui un immobile sia stato occupato in esplicito contrasto con la volontà del proprietario il quale si sia anche occupato di denunciare tempestivamente l’accaduto in sede penale, difetti, in relazione all’immobile occupato abusivamente, la capacità contributiva in capo a chi abbia subito impotente la suddetta occupazione, cosicché «si finirebbe per tassare una ricchezza inesistente laddove, invece, ogni prelievo tributario deve avere una causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza» (sentenze n. 10 del 2023 e 120 del 2020).

Del resto il legislatore è già intervenuto in questo senso con l’art. 1, comma 81, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, a decorrere dal 1° gennaio 2023, stabilendo che «Sono esenti dall’imposta, per il periodo dell’anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili non utilizzabili né disponibili, per i quali sia stata presentata denuncia all’Autorità giudiziaria in relazione ai reati di cui agli articoli 614, secondo comma, o 633 del codice penale o per la cui occupazione abusiva sia stata presentata denuncia o iniziata azione giudiziaria penale»: la Corte costituzionale, con la presente sentenza, è come se avesse esteso retroattivamente la portata di tale norma.

 

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Lotta all’evasione e competenze delle regioni

In materia di attività di recupero fiscale per i tributi propri derivati è esclusa la possibilità di intervento legislativo delle regioni, poiché allo Stato spetta, in rispetto dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, una competenza legislativa esclusiva. È questo il principio di diritto sancito dalla Corte Costituzionale, nella sentenza del 23/11/2023 n. 206,  dichiarando illegittima la Legge di stabilità 2023 della regione Veneto nella parte in cui assimila alla attività di cui all’art. 9 del Decreto Legislativo n. 68 del 2011 di recupero dei tributi propri derivati anche il ravvedimento operoso (totale o parziale) a seguito di attività di controllo sostanziale, per interferenza della competenza legislativa esclusiva statale, disciplinata dall’art. 117, comma 2, lettera e).

La questione ha ad oggetto non la spettanza alla Regione Veneto del gettito relativo all’IRAP e all’addizionale regionale all’IRPEF maturato nel suo territorio e destinato al finanziamento del SSN – circostanza che non è contestata dallo Stato – ma l’impiego del gettito proveniente da ravvedimento operoso, cui il contribuente abbia deciso di aderire ex art. 13, comma 1-ter, del d.lgs. n. 472 del 1997, a seguito dello svolgimento nei suoi confronti di un’attività di controllo da parte dell’amministrazione finanziaria. L’IRAP e l’addizionale regionale all’IRPEF, disciplinate dal d.lgs. n. 446 del 1997, sono definite tributi regionali propri derivati, ai sensi dell’art. 7, comma 1, lettera b), numero 1), della legge n. 42 del 2009. Si tratta di imposte istituite da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle regioni; la relativa disciplina, pertanto, va ricondotta, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, alla materia del sistema tributario dello Stato, di competenza legislativa esclusiva statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost, con conseguente contenimento dell’autonomia impositiva regionale entro i limiti stabiliti dalla legge statale (sentenze n. 274 e n. 76 del 2020, n. 128 del 2019, n. 177 del 2014, n. 121 del 2013 e n. 32 del 2012). L’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 68 del 2011 stabilisce che, in riferimento ai «tributi propri derivati e alle addizionali alle basi imponibili dei tributi erariali», è assicurata alle regioni, attraverso il riversamento diretto, solo quella parte di gettito derivante dall’attività di recupero fiscale.

L’attività di recupero fiscale dell’amministrazione finanziaria è ben diversa dal ravvedimento operoso, che presuppone, da un lato, l’assenza «di atti di liquidazione e accertamento» (art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 472 del 1997) dell’amministrazione finanziaria e, dall’altro, che il contribuente si attivi spontaneamente per estinguere la pretesa fiscale; a tali differenti situazioni il legislatore statale, nell’esercizio della sua discrezionalità nella materia del sistema tributario dello Stato, fa conseguire due diverse destinazioni del gettito incamerato.

La nozione di attività di recupero fiscale dettata dallo Stato, per i tributi propri derivati, nell’esercizio della propria competenza legislativa esclusiva non autorizza la Regione ad intervenire in tale ambito; e ciò indipendentemente dal contenuto della disposizione regionale (sentenza n. 32 del 2012).

Ne consegue che l’impugnato art. 10 della legge reg. Veneto n. 30 del 2022, che assimila alla «attività di recupero fiscale» (art. 9 del d.lgs. n. 68 del 2011) dei tributi propri derivati anche il «ravvedimento operoso (totale o parziale) a seguito di attività di controllo sostanziale», interferendo con la competenza legislativa esclusiva statale, è costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in materia di sistema tributario dello Stato.

La Consulta auspica, infine, che il legislatore adotti un intervento sistematico e ponderato nel campo tributario. Ciò al fine di conferire alle Regioni un’autonomia finanziaria effettiva con riguardo alle competenze di cui sono titolari, specialmente per quanto concerne la partecipazione nella lotta all’evasione fiscale.

 

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Corte Costituzione: il differimento del T.F.S. è incompatibile con la Costituzione

Il differimento della corresponsione dei trattamenti di fine servizio (T.F.S.) spettanti ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione.
Si tratta di un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana. Spetta al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.
Lo ha affermato la Corte Costituzionale, con la sentenza n.130/2023, con cui sono state dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni. Le questioni erano state sollevate dal Tribunale amministrativo per il Lazio, sezione terza quater, in riferimento all’art. 36 Cost.
Tuttavia, la discrezionalità del legislatore al riguardo – ha chiarito la Corte – non è temporalmente illimitata. E non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, tenuto anche conto che la Corte aveva già rivolto al legislatore, con la sentenza n.159 del 2019, un monito con il quale si segnalava la problematicità della
normativa in esame. La Corte ha poi rilevato che la disciplina del pagamento rateale delle indennità di fine
servizio prevede temperamenti a favore dei beneficiari dei trattamenti meno elevati.
Comunque, conclude la Corte, tale normativa – che era connessa a esigenze contingenti di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il differimento della prestazione, finisce per aggravare il rilevato vulnus.

Corte costituzionale, Fondo di solidarietà comunale: è urgente l’intervento del legislatore

All’interno del Fondo di solidarietà comunale, «in aggiunta alla tradizionale perequazione ordinaria – strutturata, fin dalla sua istituzione, secondo i canoni del terzo comma dell’art. 119 Cost. e quindi senza alcun vincolo di destinazione –», è stata progressivamente introdotta dal legislatore statale, in forma non coerente con il disegno costituzionale, «una componente perequativa speciale, non più diretta a colmare le differenze di capacità fiscale,
ma puntualmente vincolata a raggiungere determinati livelli essenziali e obiettivi di servizio» in vista del diverso obiettivo di «rimuovere gli squilibri territoriali» nell’erogazione di servizi sociali.
È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza n.71/2023, con cui la Corte costituzionale ha deciso il ricorso proposto dalla Regione Liguria nei confronti dell’art. 1, commi 172, 174, 563 e 564, della legge n. 234 del 2021 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), in riferimento agli artt. 5 e 119, primo, terzo, quarto e quinto comma, Cost.
Le suddette norme incrementano, attraverso risorse statali, in modo consistente e progressivo la dotazione del Fondo di solidarietà comunale. Nel contempo, tuttavia, stabiliscono specifici vincoli di destinazione sulla relativa
spesa, in funzione del raggiungimento di livelli essenziali delle prestazioni o di obiettivi di servizio, in relazione ad asili nido, trasporto degli studenti disabili, assistenza sociale, destinati solo a determinati Comuni. La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni in considerazione del «ventaglio di soluzioni» idonee a rimediare al vulnus alla Costituzione prodotto dalle norme impugnate e dell’impossibilità di individuarne una costituzionalmente adeguata o obbligata.
La Corte ha, però, ritenuto opportuno rivolgere un deciso monito al legislatore per un urgente intervento di riforma, perché «una soluzione perequativa ibrida» non è coerente con l’art. 119 Cost. Infatti, «componenti perequative riconducibili al quinto comma» dell’art. 119 Cost. devono «trovare distinta, apposita e trasparente
collocazione in altri fondi a ciò dedicati, con tutte le conseguenti implicazioni».
Peraltro, si è osservato nella sentenza, «risulta palesemente contraddittorio che, a fronte di un vincolo di destinazione funzionale a garantire precisi LEP, la “sanzione” a carico dei comuni inadempienti possa poi consistere nella mera restituzione delle somme non impegnate»: questa soluzione, infatti, «non è in grado di condurre al potenziamento dell’offerta dei servizi sociali e lascia, paradossalmente, a dispetto del LEP definito, del tutto sguarnite le persone che avrebbero dovuto, grazie alle risorse vincolate, beneficiare delle relative prestazioni».
La Corte ha quindi concluso che il compito di adeguare il diritto vigente alla tutela costituzionale riconosciuta all’autonomia finanziaria comunale, al contempo bilanciandola con la necessità di non regredire rispetto all’imprescindibile processo di definizione e finanziamento dei LEP – la cui esigenza è stata più volte rimarcata dalla Corte –, non può che spettare al legislatore, chiamato però a intervenire «tempestivamente».

 

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Corte Costituzionale: il numero massimo dei mandati consecutivi dei Sindaci eletti direttamente deve essere deciso dal legislatore statale

È costituzionalmente illegittima la normativa della Regione autonoma Sardegna che consente quattro mandati consecutivi ai sindaci dei comuni con popolazione fino a tremila abitanti, e tre mandati consecutivi a quelli dei comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti.
Essa infatti contrasta con la disciplina statale (articolo 51, comma 2, del testo unico sugli enti locali, in vigore dal 14 maggio 2022), in forza della quale i sindaci dei comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti possono svolgere tre mandati consecutivi e i sindaci degli altri comuni due. Lo ha deciso la Corte Costituzionale, con sentenza n. 60/2023, ribadendo che la competenza legislativa attribuita dallo Statuto speciale alla Regione nella materia “ordinamento degli enti locali” va esercitata in armonia con la Costituzione e, in particolare, con il principio previsto all’articolo 51 della Costituzione.
Quest’ultimo, a tutela del diritto fondamentale di elettorato passivo, esige che tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possano accedere alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza: deve essere perciò il legislatore statale, con disciplina uniforme per tutto il territorio nazionale (e quindi per tutti i Comuni), a stabilire, per i sindaci, il numero massimo di mandati elettivi consecutivi.
La Corte evidenzia che la previsione del numero massimo dei mandati elettivi consecutivi dei sindaci, introdotta come ponderato contraltare alla loro elezione diretta, serve a garantire vari diritti e principi di rango costituzionale: «la par condicio effettiva tra i candidati, la libertà di voto dei singoli elettori e la genuinità complessiva della competizione elettorale, il fisiologico ricambio della classe politica e, in definitiva, la stessa democraticità degli enti locali».

 

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Corte costituzionale: le sanzioni tributarie devono essere proporzionate

t. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997, prevedendo la possibilità di ridurre le sanzioni fino a dimezzarle, si pone come «una opportuna valvola di decompressione che è atta a mitigare l’applicazione di sanzioni» che «strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire
draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano».

È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza n. 46/2023, con cui la Corte costituzionale ha deciso la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Bari, fra l’altro, sull’art. 1, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 471 del 1997, che prevede: «nei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 250». Nella fattispecie del giudizio a quo si era «in presenza di un contribuente che sì ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi relativa al regime fiscale del consolidato, ma, da un lato, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione, in tal modo esponendosi inequivocabilmente ai controlli dell’Agenzia dell’entrate, e, dall’altro, ha comunque interamente versato, sebbene in ritardo, ma prima di aver ricevuto qualsivoglia avviso di accertamento, le imposte dovute».

La sentenza ha dichiarato non fondata la questione sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata del richiamato art. 7, nella quale, «come del resto da tempo auspicato dalla dottrina, il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997». In questi
termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze. Tale interpretazione, precisa la sentenza, «fornisce maggiore chiarezza ai criteri di determinazione delle sanzioni in esso stabiliti», e va «applicata al sistema delle sanzioni tributarie» dall’Agenzia delle entrate o in sede contenziosa, anche a prescindere da una formale istanza di parte.

 

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Corte Costituzionale, non fondate le censure sulla sospensione del pagamento degli interessi durante il dissesto finanziario

Non sono fondate le questioni sollevate dal Consiglio di Stato sulle norme che prevedono la “mera sospensione” del pagamento degli interessi durante la procedura di dissesto di un ente locale e non escludono il diritto dei creditori di chiedere il pagamento di quelli maturati successivamente alla dichiarazione di dissesto. È quanto sostenuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 219/2022, che ha ritenuto le norme sul dissesto contenute nel Testo unico enti locali (articolo 248, quarto comma) espressive di un ragionevole bilanciamento tra l’esigenza di tutela dei creditori, alla base della sicurezza dei traffici commerciali, e l’esigenza di ripristinare i servizi indispensabili per la comunità locale.

La Corte, nell’esaminare la disposizione relativa agli interessi sul debito degli enti locali, ha affermato che, in coerenza con le caratteristiche di una procedura concorsuale, la disposizione relativa agli accessori del credito ha la finalità di determinare esattamente la consistenza della massa passiva da ammettere al pagamento nell’ambito del dissesto dell’ente locale, ma essa «non implica la “estinzione” dei crediti non ammessi o residui, i quali, conclusa la procedura di liquidazione, potranno essere fatti valere nei confronti dell’ente risanato» (sentenza n. 269 del 1998). Tale meccanismo risulta finalizzato alla realizzazione della par condicio, oltre che a impedire un ulteriore deterioramento della condizione patrimoniale del debitore.

La Corte ha ricordato che un comune, nell’assumere un impegno di spesa pluridecennale, dovrebbe prestare adeguata considerazione alla relativa sostenibilità finanziaria, con l’indicazione delle risorse effettivamente disponibili, a garanzia di una sana gestione finanziaria. Inoltre, in pendenza della procedura di dissesto, dovrebbe apprestare misure, anche contabili, idonee a garantire il più rapido ripristino dell’equilibrio finanziario. Il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione rappresenta un obiettivo prioritario non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, che viene intrinsecamente minato dalle situazioni debitorie non onorate tempestivamente.

L’assunto del Consiglio di Stato, secondo cui la vigente disciplina sugli accessori del credito attribuirebbe ai creditori degli enti locali in dissesto una tutela eccessiva a scapito della collettività di cui l’ente locale è esponenziale, non tiene conto del fatto che la disciplina sul dissesto (artt. 244 e seguenti del TUEL) contiene una serie di misure volte a consentire, da un lato, che l’OSL gestisca il passivo pregresso (a tutela della massa dei creditori) e, dall’altro lato, che il comune continui a esistere e operare (in quanto ente necessario), con un bilancio autonomo e distinto da quello dell’OSL, finalizzato non solo a gestire gli affari correnti, connessi soprattutto ai servizi essenziali, ma pure ad accantonare risorse per il pagamento di eventuali debiti o accessori che dovessero generarsi in pendenza della gestione liquidatoria.

Le attuali norme sul dissesto sono dunque espressive di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza, che è alla base della sicurezza dei traffici commerciali, che si correla all’art. 41 Cost., di tutelare i creditori e l’esigenza di ripristinare sia la continuità di esercizio dell’ente locale incapace di assolvere alle funzioni, sia i servizi indispensabili per la comunità locale. La Corte ribadisce che il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione rappresenta un «“obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente”.

Nel caso oggetto del giudizio, la possibile nuova dichiarazione di dissesto a cui – si assume – sarebbe esposto il Comune non è dunque imputabile alla norma censurata, ma rappresenta piuttosto un inconveniente di fatto, inidoneo, da solo, a fondare un profilo di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 220 del 2021, n. 115 del 2019, n. 225 del 2018). Peraltro, la Corte ha già chiarito, il quadro normativo e quello costituzionale vigenti consentono di affrontare le situazioni patologiche della finanza locale, sia quando queste siano imputabili a caratteristiche socio-economiche della collettività e del territorio, mediante l’attivazione dei meccanismi di solidarietà previsti dall’art. 119, terzo e quinto comma, Cost. (quindi, in ipotesi di deficit strutturali); sia quando le disfunzioni sono dovute a patologie organizzative, per il rilievo e contrasto delle quali il decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, ha previsto strumenti puntuali e coordinati per prevenire situazioni di degrado progressivo nella finanza locale (sentenza n. 115 del 2020).

 

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Corte Costituzionale: consentite le partecipazioni pubbliche anche minoritarie

È parzialmente illegittimo l’articolo 3, comma 2, della legge della Sicilia 26 maggio 2021, n. 12 (Norme in materia di aree sciabili e di sviluppo montano), là dove consentiva ai Comuni della Regione, in relazione allo sviluppo delle località montane e delle relative aree sciabili, di costituire o partecipare a società per un indefinito e quindi eccessivo insieme di finalità e attività. Ciò collide, infatti, con l’impostazione alla base del Testo Unico delle società partecipate (TUSP) che, attraverso un doppio vincolo, di scopo e di attività, punta a contrastare l’aumento ingiustificato delle partecipazioni pubbliche.
È quanto si legge nella sentenza n. 201/2022 con cui la Corte costituzionale ha spiegato che il rilevato contrasto non determina, tuttavia, l’illegittimità costituzionale dell’intera norma impugnata, perché l’attività di realizzazione e di gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità turistico-sportiva è espressamente considerata dall’articolo 4, comma 7, del TUSP.
La partecipazione, anche minoritaria, a società per la realizzazione e la gestione di tali impianti di risalita rimane quindi consentita, avendo peraltro anche finalità pubbliche di sostegno alle attività svolte nelle aree sciabili, di cui spesso costituisce l’infrastruttura essenziale. In ogni caso, la puntuale decisione di avvalersi di una società pubblica per lo svolgimento di tale attività dovrà essere analiticamente motivata secondo quanto dispone l’articolo 5 del TUSP, perché «gli enti territoriali possono assumere direttamente la gestione di attività imprenditoriali solo se (e in quanto) siano in grado di farlo a condizioni più favorevoli di quelle offerte dal mercato». La sentenza, più in generale, ha anche precisato che il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale «implica un favor per la società civile con riferimento a quelle attività di interesse generale che essa sia in grado di svolgere (in quanto non è
richiesta la natura pubblica del soggetto erogatore) e alle quali ben può l’ente pubblico concorrere con una partecipazione anche di minoranza».

 

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Corte costituzionale, piccoli comuni: vanno escluse le candidature che non assicurano la parità di genere

È incostituzionale la mancata previsione, per i comuni con meno di 5.000 abitanti, dell’esclusione della lista elettorale che non presenti candidati di entrambi i sessi.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 62/2022. La presenza di candidati di entrambi i sessi nelle liste elettorali comunali costituisce una garanzia minima delle pari opportunità di accesso alle cariche elettive.
Quest’obbligo vale anche per i comuni con meno di 5.000 abitanti, ma per essi la disciplina sulla presentazione delle liste elettorali non prevede nessuna sanzione nel caso di violazione. La misura di riequilibrio della rappresentanza di genere nei comuni più piccoli – che rappresentano il 17% della popolazione italiana – è dunque ineffettiva e perciò inadeguata a corrispondere a quanto prescritto dall’articolo 51, primo comma, della Costituzione, secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
Gli articoli 71, comma 3-bis, del Dlgs n. 267 del 2000 e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del Dpr n. 570 del 1960, relativi alla presentazione delle liste dei candidati nei comuni con meno di 5.000 abitanti, sono quindi incostituzionali nella parte in cui non prevedono rimedi per il caso di liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi. Riscontrato il vulnus, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’esclusione delle liste che non rispettino il vincolo costituisca una soluzione costituzionalmente adeguata a porvi rimedi.
Si tratta infatti della soluzione prevista dalla stessa normativa sia per il caso delle liste lesive delle quote minime di genere nei comuni maggiori, sia per quello delle liste con numero inferiore al minimo di candidati negli stessi comuni con meno di 5.000 abitanti. Essa si inserisce dunque coerentemente nel tessuto normativo senza alterarne in particolare il carattere di gradualità in ragione della dimensione dei comuni.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION