Corte Costituzionale: Depositate le motivazioni della sentenza sull’abrogazione dell’abuso d’ufficio

L’abrogazione del reato di abuso di ufficio da parte del legislatore italiano non contrasta con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Mérida); e la Corte costituzionale non può sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante da tale abrogazione, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.

Lo scrive la Corte costituzionale nelle motivazioni (sentenza n. 95/2025) della decisione già preannunciata lo scorso 8 maggio, con cui sono state ritenute non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici giudici, tra cui la Corte di cassazione, contro l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio ad opera della legge numero 114 del 2024. La Corte ha ritenuto ammissibili le questioni che i giudici rimettenti avevano formulato con riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione, che condiziona l’esercizio della potestà legislativa al rispetto degli obblighi internazionali, tra cui quelli derivanti da convenzioni internazionali ratificate dall’Italia.

Se una convenzione dovesse effettivamente prevedere l’obbligo, per il legislatore nazionale, di prevedere come reato una certa condotta, la Corte ben potrebbe dichiarare l’illegittimità della legge che abbia abrogato quel reato, violando l’obbligo assunto dallo Stato in sede internazionale. L’effetto della pronuncia della Corte sarebbe, in tal caso, quello di ripristinare la legge in precedenza in vigore. Nel merito, la Corte – dopo aver dettagliatamente esaminato tutte le norme della Convenzione di Mérida invocate dai giudici rimettenti – ha però escluso che da esse possa ricavarsi un obbligo di prevedere come reato le condotte di abuso di ufficio, reato che peraltro non è uniformemente presente in tutti gli ordinamenti penali degli Stati firmatari.

I giudici rimettenti avevano anche sostenuto che la scelta del legislatore si sia posta in contrasto con il principio di uguaglianza, tutelato dall’articolo 3 della Costituzione, dal momento che il legislatore avrebbe lasciato irragionevolmente prive di sanzione penale condotte più gravi di altre, che continuano anche oggi a essere qualificate come reati. Inoltre, le ordinanze di rimessione avevano sottolineato il vuoto di tutela che, per effetto dell’abrogazione, si sarebbe creato rispetto a condotte gravemente dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, sanciti dall’articolo 97 della Costituzione.

Queste due ultime censure sono però state dichiarate inammissibili, sulla base della costante giurisprudenza della Corte che ritiene precluso l’esame di questioni di legittimità costituzionale formulate sulla base degli articoli 3 o 97 della Costituzione, quando il loro accoglimento produrrebbe un effetto “in malam partem”, e cioè espansivo della punibilità. In definitiva, ha concluso la Corte, “se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato (…) possano ritenersi o meno compensati dai benefici che
il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati”.

L’affidamento di un incarico di vertice a persona incompatibile configura il reato di abuso d’ufficio

Si configura il reato di abuso d’ufficio nei confronti di un assessore o sindaco che affida a persona incompatibile un ruolo anche non formalmente dirigenziale all’interno dell’ente comunale. Nel caso concreto, la persona assunta in un piccolo Comune aveva taciuto nella propria autodichiarazione di essere stato condannato per abuso d’ufficio, di fatto aveva un ruolo di supervisore su molteplici delibere comunali adottate. L’assessore firmatario dell’atto veniva accusato dal giudice di merito in via provvisoria di abuso di ufficio (art. 323 c.p.). La Cassazione confermando la misura cautelare inflitta, ha rigettato il motivo di ricorso basandosi sulla reale consistenza dei compiti affidati alla persona incaricata direttamente dell’assessore ricorrente. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile la violazione delle regole di incompatibilità stabilite dall’articolo 35 bis del Testo unico del pubblico impiego per l’assunzione diretta di una persona in un ruolo che non era quello dirigenziale chiarendo che il divieto colpisce non solo chi diventa formalmente dirigente, ma anche chi nei fatti si trova a svolgere funzioni equiparabili. Al conferimento dell’incarico apicale o di coordinamento al dipendente pubblico deve precedere la sua dichiarazione di inconferibilità o incompatibilità (art. 20 d.lgs 39/2013 – ANAC delibera n. 818/2019).

Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza n. 15886 del 26/4/2022

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION